Gli invisibili: il viaggio in treno di un indiano in Italia

In lontananza un fischio. La via ferrata è sporca, le facce stanche. L’annuncio del megafono è sempre lento, è sempre in ritardo. Fateen ricorda i tempi della grande Indian Railwails: i treni viaggiavano senza orari, porte aperte, ci si azzuffava per prendere un posto, ma quella era l’India. Si partiva tutti insieme la mattina e si ritornava al calar del sole. Poi il sogno italiano viaggiando per tutta l’Asia direzone Italia. Raheem era stato il primo ad arrivare e via via aveva portato con sé tutta la sua India: la giovane Vanamala, sposata e lasciata in Punjab in attesa del visto,  la piccola Bijli e suo fratello Fateen. In India i tempi della diversità erano finiti e in occidente si era combattuto per i negri al potere, si cominciava ad accettare gli omosessuali un po’ ovunque e poi l’Italia… quelli avevano popolato mezzo mondo, erano sbarcati in America come morti di fame e da lì avevano costruito imperi legali e illegali. Erano andati in Argentina, Germania. Gli italiani erano nel mondo figuriamoci se si facevano problemi ad accettare i fratelli indiani. Fateen non sapeva che in Italia si era smarrita da tempo un’idendità comune e in assenza di simboli e valori in cui identificarsi si guardavano gli altri con disprezzo, paura e odio. Quasi quindici anni erano passati da quando aveva preso quell’aereo da Chandigarh per Delhi e poi Delhi-Roma. Non aveva mai viaggiato, non sapeva cosa fosse un aeroplano visto solo dal basso riportare i suoi amici a casa con soldi, anelli d’oro e vestiti lucenti. Non sapeva cosa ci fosse in Italia, ma sapeva che da lì arrivava la ricchezza. Non bisognava conoscere altro, nessuno gli aveva detto altro.

Il sole picchiava, un’ora di ritardo… sarei potuto restare un’altra ora a lavoro, beh due euro in più, con il cambio di oggi sono circa 150 rupie…vabbè non ne potevo sapere nulla. Guarda come sono ridotto, ho la terra che mi riempie le mutande e puzzo di pakistano. Oh… mio cugino è pakistano. Beh, puzzo di mio cugino. Ma ecco che il treno arriva. Il biglietto. No oggi niente biglietto. No, oggi niente. Tanto è una fermata e se gli italiani non lo pagano perché dovrei farlo io. Oggi no, tanto non passa, non passa mai a quest’ora. Il cigolio dei freni e la puzza di plastica bruciata ferma quest’enorme carcassa lenta e stanca. Balvidner, Joginder e Narinder sono già lì. Seduti al piano di sotto. Mi hanno preso il posto. Mi fanno cenno. Tutti gli occhi si posano su di me, su di noi. L’aria condizionata non c’è più o non c’è mai stata. Tutti si svolazzano con ventagli creati da ritagli di giornali, documenti, libri di scuola. Davanti a me una ragazza in piedi, le faccio cenno di prendere il mio posto, gira gli occhi verso la sua amica, si copre con un foglio bianco e ride: sbarra gli occhi, accenna ad un conato di vomito. Così mi siedo affianco ai miei amici. Tutti ci guardano disgustati nascosti dietro colletti bianchi appena ingialliti dal sudore, da polo e magliette pezzate sotto le ascelle. Ma quello è il sudore di chi non lavora con le mani, è il sudore di chi sta seduto dietro una scrivania, di chi fa finta di studiare riempiendo le biblioteche univesitarie e nascondendosi dietro gli stati di facebook. Un vuoto intorno a noi, sembra che tutti debbano scendere alla prossima fermata. Il vagone è vuoto. Balvinder, Joginder e Narinder non volevano sedersi in alto, avevano adocchiato quattro posti e li hanno presi. Discutiamo ad alta voce, lo sanno che sotto non è per noi. Quelli come noi vanno sopra, di solito lì è più sporco e chi passa mormora “non sembra di stare in Italia”.

Tutti mi guardano. Si tappano le narici tanto è il fetore di vestiti lerci e consumati dalla terra calda. Le mie mani callose sono nascoste in una tasca rotta del pantalone.  Non sanno che se avesse potuto scegliere Fateem non avrebbe raccolto pomodori, broccoletti, zucchine, melanzane, zucche, spalato cacca di mucca e guadagnato due euro l’ora. Non sanno che così sporco non posso nemmeno pregare gli dei, non son degno. Non sanno o non vogliono sapere che quello che comprano si trova grazie al mio lavoro e quello dei miei amici. Non abbiamo scelto questo e non avevamo scelta.  Rientro a casa, Kairavi mi ha già preparato i vestiti puliti, i ragazzi sono fuori. Entro nella doccia e penso che forse sono pochi  i popoli al mondo che si lavano quanto gli indiani, perché da noi l’abluzione ha un significato religioso importante e noi siamo il popolo della religione, del sorriso e della danza. Mi spalmo dell’olio di cocco sulla testa, forse gli italiani sono solo invidiosi dei nostri capelli. Calvi loro, carenti di testosterone vittime di un machismo estinto negli anni. Bah. Mi inchino giungendo le mani di fronte a Parvati, Lord Siva e Ganesh. Il sapore acre dell’incenso arriva finalmente dentro di me. Recito le preghiere e ringrazio il grande e potente perché ho un lavoro, perché faccio del bene, perché sono un invisibile, perché la mia famiglia in India può vivere meglio. Ringrazio per il posto in cui mi trovo ora a vivere e a lavorare e mi scuso per gli italiani, per loro… gente non toccata dall’intelligenza, vittima dei cliché, ignorante. Mi scuso. Mi scuso per loro e per tutti quelli che credono ancora nelle differenze.

1 Commento

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Una risposta a “Gli invisibili: il viaggio in treno di un indiano in Italia

  1. Riccardo Piazza

    L’essenziale è invisibile agli occhi che si ostinano chiusi. Siamo vittime del nuovo consumismo, della nuova globalizzazione, rischiamo di staccarci dalla realtà. Quando veniamo trascinati nuovamente, senza mezzi termini, al mondo, che intanto diventa inclusione, contaminazione, diversificazione prolifica, ecco che risultiamo riottosi e schifati. Il processo è inarrestabile, ed è per questo che l’intollerante si dibatte, urla, sputa e mette barriere all’altro. Paura dell’inevitabile. Non si rende conto di quanto possa essere misero ed insignificante.

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